Cari Amici,
torno dopo tantissimo tempo a raccontarvi di un viaggio e non è un caso che lo faccia proprio oggi che è il 17 agosto. Mentre scrivo, infatti, in un'abbazia abbandonata all'estremo nord della Puglia, si tiene quello che per il secondo anno è l'evento principe dell'estate: Agatabù. L'abbazia in questione è dedicata a Sant'Agata e si trova nell'agro del mio paese d'origine, Serracapriola, in provincia di Foggia. Il complesso ha per noi tutti un valore affettivo più che storico: non era Pasquetta se non si andava a Sant'Agata a fare gli esploratori. Le mura erano all'epoca già molto decadenti e nessuno ha mai scommesso un centesimo sul "rudere". Per fortuna però i tempi sono cambiati, la si pensa in modo differente e può succedere che un giovane si svegli una mattina e all'improvviso gli sovvenga un'idea...
Paolo Rossi, giovane architetto nostrano, si è laureato due anni fa con una tesi sull'abbazia e la scorsa estate ha organizzato una conferenza per noi suoi compaesani in cui ci ha parlato di Sant'Agata come non abbiamo mai sentito parlarne prima. Ma il ragazzo non si è limitato a questo. Ha dato vita ad Agatabù, il progetto che, attraverso eventi culturali e visite guidate, si pone l'obiettivo di riaccendere i riflettori sul monastero affinché venga valorizzato con un restauro e una nuova destinazione d'uso. Io ho partecipato alla prima edizione di Agatabù quando a farci da guida è stato Stefano Vannella, lo speleologo "visionario" specializzato in cavità difficili, che da diversi anni studia e monitora l'abbazia sognando per essa un destino diverso.
L'abbazia di Sant'Agata sorge in un punto strategico, su di una collinetta vicino al mare. È un complesso a pianta rettangolare che presenta dei contrafforti successivi alla struttura del monastero. Il primo documento che le riguarda è un atto del 1420 che la affida ai monaci Cistercensi, ma probabilmente l'anno della sua fondazione va dal 1277 al 1328 ad opera dei Benedettini. Costoro erano insediati nell'abbazia di Santa Maria, nelle vicine isole Tremiti, ed è verosimile che avendo bisogno di un appoggio sulla terraferma abbiano eretto Sant'Agata. Varie fonti parlano di questo sito ameno, prossimo a un porto (oggi scomparso) sul fiume Fortore. All'inizio doveva trattarsi di una semplice torre d'avvistamento o di un piccolo agglomerato che tuttavia supportava egregiamente l'abbazia principale anche attraverso la spedizione di viveri.
Dopo i Benedettini entrarono in scena i Cistercensi i quali avevano esigenze molto serie. Avevano accettato di trasferirsi qui per tre ragioni fondamentali: la visuale sul territorio, lo sbocco sul mare e la presenza dell'acqua che permetteva lo svolgimento delle attività agricole. Furono loro a trovare una falda a circa 20-30 metri di profondità e a dotare il complesso di pozzi e cisterne. Ai Cistercensi succedettero poi gli Agostiniani. Nel 1800 l'abbazia era ancora attiva pure se il periodo florido della vita monastica resta quello intorno al 1500. Il terremoto del 1627, che ne distrusse praticamente una metà, segnò in un certo senso l'inizio della fine nonostante la ricostruzione della parte centrale. Negli anni Sessanta del 1900 vi si celebrava ancora messa a cui partecipavano le famiglie contadine dei dintorni.
Quella che vediamo oggi è una struttura "in bilico". Molte parti sono crollate, altre purtroppo lo faranno a breve, per non parlare degli elementi architettonici letteralmente staccati e portati via dai vandali. Uno sciacallaggio senza fine che meriterebbe molto più del biasimo.
Il primo dettaglio che colpisce il visitatore sono le mura di recinzione, con l'entrata principale e le torri di avvistamento. Proprio vicino all'entrata vi è una torretta che fuoriesce dalle mura, mentre le altre quattro sono inserite ai quattro angoli. È dotata di bocche di fuoco e sul lato opposto guarda ad una simile, ma molto meno bella. Il monastero aveva due chiostri, uno esterno e uno interno. Quello esterno era una parte importante seppure non essenziale. La fabbrica è fatta di pietre con aggiunte successive di mattoni. Attorno ad esso locali più o meno spaziosi ospitavano sia le persone che venivano da fuori che quelle che lavoravano stabilmente all'abbazia.
Eh già... Perché all'epoca i monasteri non erano solo luoghi di culto e di cultura, ma anche di produzione. Sia la regola benedettina che quella cistercense erano chiare a riguardo: un monastero non poteva solamente prendere da un territorio e da una comunità, doveva anche restituire. A Sant'Agata, sotto la direzione dell'abate, si producevano cereali, uva e vino; si allevavano bovini, ovini, bufale, giumente, api. Il fiore all'occhiello, però, era la "legorizia", un estratto di liquirizia, un liquore destinato a deliziare il palato di soli colti, eruditi, abati e intimi amici. C'erano anche piantagioni particolari che non conosciamo, coltivate a cielo aperto in un giardino interno. Tale grazia di Dio, come si dice da queste parti, era destinata al sostegno dell'abbazia delle Tremiti, alla vendita e naturalmente alla consumazione in loco.
Con questo abbiamo concluso il tour esterno dell'abbazia. Nella prossima puntata entreremo nel cuore del monastero che ci riserva altre storie e curiosità. Nel salutarvi vi lascio una comunicazione di servizio che per noi significa molto: l'evento Agatabù è sold out. In questa estate 2020 così particolare e a tratti avvilente the winner is la cultura.
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