Cari Amici,
non appena fuori la città di San Giovanni Rotondo, sulla SS 272 che porta a Monte Sant'Angelo, un bivio immette sull'antica via percorsa dai pellegrini che si recavano alla sacra grotta dell'Arcangelo Michele. Si tratta della Via Francigena o, com'è nota da queste parti, la Via Sacra Langobardorum. Calpestando le orme di quei devoti camminatori, abbiamo raggiunto a piedi un altro dei suggestivi siti garganici: l'eremo di San Nicola di Prato Pantano.
Il nome deriva dal fatto che un tempo il monastero fronteggiava una specie di laghetto, a essere precisi una palude (pantano) poi bonificata e destinata all'agricoltura. Il paesaggio, infatti, appare decisamente bucolico. Per strada incrociamo un gregge di pecore e sparse qua e là ammiriamo alcune casette di contadini.
L'eremo di San Nicola è oggi un rudere malconcio, poco leggibile e deturpato dalla presenza di una masseria il cui proprietario avrebbe costruito volentieri anche sul resto delle rovine. Per fortuna non ne ottenne mai il permesso, ma ugualmente è riuscito a rovinare un pezzo di storia...
La chiesa fu edificata dai monaci benedettini di Cava dei Tirreni tra il 1086 e il 1090. Aveva una pianta basilicale, era priva di cupola e illuminata da due soli finestroni. I documenti ci parlano di un monastero superorganizzato che disponeva di una sacrestia, di un chiostro con la cisterna, di celle per i monaci e anche di un "ospedale" per l'accoglienza e il ricovero dei pellegrini. Come conferma pure un diploma emesso da Federico II nel 1225, i religiosi erano proprietari di tutto il complesso e del territorio adiacente.
La storia di San Nicola, tuttavia, non procede lineare come sembrerebbe e a tratti è avvolta nel mistero. A un certo punto il monastero passa in reggenza provvisoria ai monaci dell'Ordine Cavalleresco dei Teutonici che però l'abbandonano per ragioni ignote. Nel 1270 Carlo I D'Angiò intima all'abate del monastero cavense di rientrarne in possesso. Egli obbedisce ma, pur rimanendo proprietà dei benedettini, esso viene abbandonato una seconda volta e ancora per motivi che non sappiamo.
A partire dal 1506 anche i documenti sembrano dimenticarsene, menzionando solo la vicina abbazia di Sant'Egidio, ridotta ugualmente ai minimi termini. Anche se non rimane quasi nulla e il mistero è fitto almeno quanto i cespugli cresciuti sul terreno, noi ci lasciamo affascinare dalla pietra e con un po' di fantasia ripercorriamo l'antico splendore di questo luogo. Il collega Nunzio individua quella che doveva essere un'acquasantiera sulla quale è incisa un'iscrizione in greco.
L'enigma ci ha letteralmente risucchiati ma è ora di andare. Il tramonto colora ciò che rimane e ciò che rimane è la traccia di un passato che purtroppo non sarà mai più possibile recuperare. Lasciamo queste mura con un senso d'impotenza. La storia, maestra di vita, ci ha dato comunque una lezione: se perdiamo la bellezza, perdiamo tutto.
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